sabato 3 gennaio 2015

Il mistero (svelato?) degli indiani Mandan

Con il lavoro che svolgo, la libraia presso una bancarella all’aperto, ho la possibilità di incontrare molte persone, con alcune delle quali sono diventata amica per la vita e con cui di frequente avvengono stimolanti scambi culturali: un amico l’estate scorsa, conoscendo il mio interesse per la storia e la cultura delle popolazioni native americane, mi chiese se avessi mai sentito parlare dei Mandan, una nazione indiana di cui lui aveva letto su una vecchia enciclopedia nella quale i Mandan vengono descritti con tratti somatici e costumi europei e purtroppo sterminati in massa da un’epidemia di vaiolo. In effetti non li conoscevo, e fare luce su una storia del genere mi permetteva di coniugare due mie grandi passioni: gli Indiani d’America e i Misteri, così iniziai la mia ricerca sui libri e su internet. Quella che segue è la rielaborazione del materiale trovato.



Nel   Pleistocene   il  livello  del  mare    si
abbassò  e   nell’  ultimo   periodo     della
glaciazione   una        striscia       di   terra
emersa      consentì      l’  attraversamento
da   un     continente     all’altro – a piedi -
dello    stretto   di Bering:  così gli studiosi
spiegano      l’arrivo    di         popolazioni
mongolidi   nel continente  americano tra
il 35000 e il 15000 a.C.
Ma     la    Vecchia   Europa         ignorerà
l’esistenza  di  terre  al  di  là  dell’oceano
Atlantico  ancora a  lungo.


Gli “indiani” Gallesi
Si racconta che molto prima di Cristoforo Colombo altri fossero approdati sul suolo americano: non tutti sanno che tra questi un gruppo di Gallesi avrebbe guadagnato le coste del Golfo del Messico nel XII secolo d.C. lasciando la loro impronta nei caratteri somatici, nella lingua e negli usi di una tribù di Indiani dalla pelle chiara con occhi azzurri e capelli biondi o rossi.
Ed è dalla seconda metà del 1500 d.C. che numerosi esploratori dichiarano di essersi imbattuti in una tribù di Nativi Americani veramente particolare.

- 1568, David Ingram, appartenente alla flotta inglese del capitano Hawkins, dopo essere sbarcato sulle coste del Golfo del Messico attraversò a piedi una grossa fetta di America Settentrionale, riferendo poi di incontri straordinari tra cui quello occasionale con una tribù di Nativi che parlavano a suo dire una sorta di Gallese:

Italiano        Gallese        Mandan
barca           corwyg        koorig
pagaia         rhwyf           ree
vecchio        hen              her
blu               glas             glas
pernice        chugjar        chuga
testa            pen              pan
grande         mawr           mah

- 1580, il brillante e discusso scienziato gallese John Dee, matematico e astronomo, importante figura nello studio della geografia dell’epoca Tudor, cercò invano di convincere la regina Elisabetta I che gli Inglesi avrebbero potuto rivendicare i territori litorali dell’est nordamericano (appartenenti alla Spagna) in nome di un antico documento, che le mostrò, attestante la presenza in quelle zone di un insediamento stabile gallese risalente al 1100 d.C. circa; benché la sovrana generalmente si lasciasse influenzare da colui che rimane l’ultimo vero grande occultista, in questa occasione preferì salvaguardare i rapporti diplomatici con la Spagna;

 - 1583, sir George Peckam scrisse “True Reporte” nel quale trattò ampiamente di un  viaggio, in quelle terre che saranno successivamente battezzate America, di un certo Lord Madoc, gallese, figlio di Owen Gwynedd, citando la testimonianza resa da David Ingram per avvalorarne la veridicità;

- 1615, un certo Champlain, esploratore francese, parlò di una tribù dalle caratteristiche singolari;

- 1660, il reverendo Morgan Jones catturato con la minaccia di essere presto giustiziato riuscì a salavarsi -dichiarò -comunicando in Gallese con gli Indiani;

- 1739, il mercante di pelli Pierre de Varennes, Sieur de la Vérendrye, autorizzato dal governatore francese del Canada a esplorare nuove terre, descrisse con precisione Indiani molto diversi da quelli delle altre tribù sia nell’aspetto fisico sia nelle tradizioni;

 - 1790, Jacques d’Eglise, un commerciante francese, giunse sull’alto corso del fiume Missouri e conobbe per primo gli indiani Mandan, popolo di 5000 individui dalla pelle chiara, distribuiti in otto città fortificate.
- 1791, il clamore suscitato nel Nuovo Mondo da queste notizie sollevò un polverone anche in Galles dove il dottor John Williams pubblicò “Enquiry into the Truth of the Tradition concerning the Discovery of America by Prince Madoc ab Owen Gwynned about the year 1170″ con cui esaltò i Gallesi per la presenza di loro connazionali liberi e indipendenti dagli Inglesi al di là dell’oceano;

- 1792, il gallese John Evans salpò da Londra in estate e arrivò a Baltimora in autunno con in tasca solo un dollaro e settantacinque centesimi alla temeraria ricerca dei propri antenati. Navigò il Mississippi fino a Nuova Madrid e poi si avventurò in impervie e inesplorate zone dell’Illinois. Miracolosamente in estate approdò non si sa come alla postazione di frontiera americana di Kaskakia;

 - 1794, l’insuccesso non frenò Evans che non si arrese e il giorno di Natale ebbe l’ardore di attraversare il Mississippi ghiacciato sperando di raggiungere S.Louis, ma venne catturato dagli Spagnoli  con la pesante accusa di essere una spia inglese e assicurato alla gatta buia per un po’. Interrogato, confessò di essere alla ricerca di una tribù indiana stanziata presumibilmente lungo il Missouri e discendente dai Gallesi di Madoc. Gli Spagnoli gli credettero solo quando altri Gallesi garantirono per lui e lo fecero liberare;

- 1795, la Spagna, il cui scopo finale era conquistare una strada per il Pacifico, appoggiò una spedizione scozzese capeggiata d James McKay, che cercava la misteriosa tribù “gallese” identificata con gli Indiani Mandan, e che John Evans finì con l’affiancare. A fine agosto McKay ed Evans con una massiccia flotta lasciarono S. Louis per risalire il fiume e penetrare in territorio indiano;

- 1796, è il 24 settembre quando finalmente John Evans trovò, mandato avanti dallo scozzese, gli indiani Mandan lungo il fiume Missouri a 1100 chilometri da S.Louis;
- 1797 Evans portò con sé sulla via del ritorno, a riprova dell’incontro con i Mandan, una mappa del Missouri e un taccuino di viaggio, ma dichiarò fallita la propria impresa non avendo rilevato alcun legame tra i Mandan e i Gallesi. Purtroppo due anni dopo John Evans, che trascorreva il tempo affogando i propri dispiaceri nell’alcool, morì, ma qualcuno sostenne che prima avesse dichiarato di essere stato pagato per tacere la verità su quanto realmente scoperto;

- 1804, in data 14 maggio cominciò ufficialmente l’impresa dei due ufficiali dell’esercito, Meriwether Lewis e William Clark cui il neo-eletto presidente Thomas Jefferson volle affidare la delicata spedizione che avrebbe permesso di esplorare il continente americano tra il Mississippi e le coste del Pacifico. L’Unione aveva acquistato dalla Francia l’immenso territorio della Louisiana che si estendeva dalla costa settentrionale del Golfo del Messico ai Grandi Laghi e includeva le regioni che si affacciano sui fiumi Mississippi e Missouri. Cinquanta uomini che durante l’inverno 1803/1804 avevano vissuto accampati alla confluenza del fiume Missouri col il Mississippi salparono a bordo di due piroghe e una grossa chiatta risalendo il Missouri. Lewis e Clarck si basarono sulla dettagliata cartina  compilata da John Evans sette anni prima. Entrarono in territorio sioux e raggiunsero la zona che oggi corrisponde allo stato del Sud Dakota. Con i primi freddi si rese necessaria l’edificazione di un accampamento atto ad affrontare il clima rigido dell’inverno alle porte e fu costruito Fort Mandan (divenuta in seguito una città) laddove erano stanziati gli indiani Mandan (Sud Dakota);

- 1805, si intensificarono i contatti con la gente Mandan dai capelli e dagli occhi chiari e ricominciò a circolare la leggenda di un antico re gallese che nel XII secolo aveva fondato una colonia americana, come dimostravano quei termini della lingua Mandan simili al Gallese e le cosiddette barche di bue dei Mandan realizzate in pelli di bisonte tese su uno scheletro di legno che ricordavano il coracle usato dai pescatori nel Galles; tuttavia Lewis e Clark, come Evans prima di loro, dichiararono che sicuramente i Mandan non avevano origini gallesi.  In questo stesso anno, in Galles fu pubblicato il poema epico “Madoc” di Robert Southey;

 - 1832, il famoso pittore e mineralogista americano George Catlin ebbe la fortuna di trascorrere qualche mese ospite dei Mandan con l’intento di ritrarre immagini di vita quotidiana di questa Nazione. Dai suoi dipinti si evince che queste genti avevano i capelli e gli occhi chiari, ma vestivano come tutti gli altri Indiani delle Pianure. Egli rimase molto colpito dalla somiglianza della lingua mandan con quella gallese. Nessuna ricerca può essere effettuata sugli Indiani d’America senza tenere conto dell’imponente contributo, arrecato alla causa per la salvaguardia e la diffusione della Cultura dei Nativi Americani da questo straordinario artista che ha immortalato in tempi antecedenti la fotografia il quotidiano di uomini e di panorami che oggi non esistono più. Le antiche case degli indiani Mandan erano rettangolari, poi a partire dal XVI secolo cominciarono a essere a pianta circolare. Costruite dalla donne e grandi abbastanza perché potessero viverci fino a dieci persone erano coperte da un tetto a cupola sorretto da una struttura in legno forato per consentire al fumo di uscire: rami, canne, terra e fieno costituivano un ottimo isolante; circondate da un porticato formavano una sorta di villaggio fortificato. Ai tempi di Catlin le abitazioni dei Mandan erano costituite da baracche bilocali costruite attorno a un albero che rappresentava l’Uomo Solitario del diluvio della loro mitologia. Questa tribù era divisa in 13 clan: ciascuno di essi possedeva una «sacra borsa» che conteneva una serie di oggetti molto importanti legati al culto. Il capo clan custodiva la borsa. Al clan spettava il compito di organizzare il matrimonio fra ragazze che fin da piccole venivano educate per diventare donne di casa e coltivatrici di mais, zucca e fagioli e ragazzi presto iniziati alla pesca e alla caccia soprattutto al bisonte. Il divorzio non solo era contemplato, ma era anche molto semplice da ottenere. Ai bambini veniva dato un nome a dieci giorni dalla nascita e poi venivano affidati al clan.
Catlin era fermamente convinto che i Mandan discendessero dai Gallesi. Egli credeva che nel 1170 un re gallese salpato con dieci navi per colonizzare terre da lui stesso scoperte al di là dell’Atlantico,  avesse navigato il fiume oggi chiamato Mississippi partendo dalla foce, trovando lungo il suo corso un terreno fertile. Secondo il pittore molti coloni, in guerra con le tribù autoctone, morirono mentre altri si unirono agli Indiani e risalirono il Missouri.
I Mandan fornivano più versioni a proposito delle loro origini: alcuni sostenevano di provenire dalla costa, altri di avere sempre vissuto lungo il corso del fiume. Secondo una visione religiosa i loro antenati erano risaliti dalle viscere della terra e si erano arrampicati sulla radice di una pianta di vite. Attraverso la loro mitologia, affermavano di discendere dall’uomo bianco arrivato a bordo di canoe nella notte dei tempi e raccontavano di un terrificante diluvio da cui si salvò soltanto l’Uomo Solitario, che sopravvisse grazie alla propria canoa, e venne informato dello scampato pericolo da una colomba che gli portò foglie di salice: in  pratica il loro Noè.
Tanto si è detto tanto si è scritto sul mistero degli indiani Mandan  ma allora non c’erano gli strumenti di cui disponiamo oggi, ad esempio l’esame del Dna, per indagarli a fondo;

- 1838, né ci fu molto tempo dal momento che una terribile epidemia di vaiolo si abbatté sugli indiani Mandan uccidendoli quasi tutti: i pochissimi che sopravvissero si unirono ai loro vicini Arikara e Hidatsa a loro volta colpiti dalla malattia;
- 1845, il Nord Dakota ospitò una grande riserva che riuniva i gruppi Mandan, Arikara e Hidatsa sopravvissuti al vaiolo;

-  1953, le Figlie della Rivoluzione Americana vollero apporre una targa per celebrare Madoc a Fort Morgan in Alabama (attualmente la suddetta targa giace in un magazzino).

Gli indiani mandan e la Danza del Bisonte
Nel contesto dei gruppi riconducibili alla famiglia linguistica dei Sioux, sicuramente i Mandan rappresentano una società indipendente. Il nome che li indica è il risultato di una alterazione della parola Mawatani con cui i Sioux li chiamavano, ma il loro vero nome fu Numanaki (= la Gente) fino al 1837 anno in cui i superstiti dalla terribile epidemia di vaiolo cominciarono ad autodefinirsi Mututahanke. Somigliavano ai Winnebago nello stile di vita: originari dei territori che corrispondono all’attuale Ohio sarebbero stati obbligati a trasferirsi a causa degli Algonchini.
Presso i Mandan gli uomini avevano l’obbligo di possedere una maschera in pelle di bisonte con tanto di corna e una striscia di pelle, lunga quanto un bisonte intero che quando indossata dalla testa correva lungo la schiena fino a terra, perché veniva il momento in cui i bisonti migravano e lasciavano i Mandan senza cibo, ed era allora che ogni uomo prendeva la propria maschera per la danza, impugnava arco e frecce e si dirigeva al centro del villaggio di fronte alla capanna sacra per convincere i bisonti a tornare indietro. Qualora un danzatore fosse allo stremo delle forze si piegava in avanti, un altro gli tendeva l’arco colpendolo simbolicamente con una freccia, cosicché egli potesse cadere a terra come un bisonte ferito o morto e trascinato per i piedi dagli spettatori fuori dal cerchio sacro dove venivano simulati scuoiamento e macellazione. Un altro ne prendeva subito il posto: danzavano a turno al ritmo dei tamburi giorno e notte accompagnati dallo scampanellio dei sonagli finché i bisonti ritornavano. Questo rito non ha mai fallito: i bisonti sono sempre tornati. Durante la lunga danza, che poteva protrarsi anche per due/tre settimane, c’era chi aveva il compito di osservare l’orizzonte in attesa dei bisonti e quando questi ultimi comparivano lanciava in aria le proprie vesti come segnale alla tribù. Allora i Mandan ringraziavano il Grande Spirito, cui venivano offerti i pezzi migliori delle carcasse e ringraziavano l’Uomo Solitario, quindi si festeggiava  mangiando e mostrando agli altri le scorte che si erano gestite nel periodo della carestia.

L’Okeepa degli indiani Mandan
La danza del Toro dipinta da George Catlin nel 1832 faceva parte della cerimonia Okeepa mediante la  quale si ripercorreva la storia della creazione della terra, la nascita degli uomini e si narrava come si fosse formato il carattere della nazione dei Mandan: uomini in giovane età si offrivano volontariamente per farsi conficcare nella pelle del torace o della schiena lunghe stecche di legno con le quali venivano sollevati a un metro da terra in un rituale di auto-inflizione che ricordava la famosa danza del Sole dei Sioux.

L’ipotesi vichinga
C’è chi vorrebbe i Mandan discendere dai Vichinghi. La saga vichinga iniziò nel lontano 982 d.C. quando Eirik detto il Rosso, norvegese di nascita, esiliato sia dalla madrepatria sia dall’Islanda con l’accusa di stragi, decise di sfidare il mare per scoprire nuove terre e arrivò nella disabitata Groenlandia, dove ritornò quattro anni dopo con quattordici navi delle venticinque che formavano il suo seguito. Ad aprire le danze dell’espansione nelle Americhe dei Vichinghi, bramosi di terre e ricchezze, però furono i suoi figli: Leif Eiriksson che acquistata una grossa barca partì da una colonia occidentale groenlandese nel 1001 d.C. e giunse dapprima in una terra montagnosa e ghiacciata che chiamò Helluland (terra delle pietre piatte) poi fondò Markland (terra delle foreste) e infine costruì  Leifsbudir, in quella che allora veniva chiamata Vinland (terra del vino) dove la vite cresceva spontanea e rigogliosa (oggi Terranova) e Thorvald che invece nel 1002 d.C. si avventurò lungo le coste dell’attuale Labrador, mentre non andò in porto l’impresa di Freydis Eiriksdottir un’altra figlia di Eirik il Rosso. Infine durò dai tre ai quattro anni la tolleranza dei Nativi definiti dagli Scandinavi skræling (disgraziati) per Thorfinn Karlsefni, sua moglie Gudrid (che diede alla luce sul suolo americano il loro figlio Snorri) e un gruppo di coloni, i quali insediatisi a Vinland intorno al 1025 d.C., per starci in maniera permanente, alla fine furono obbligati a partire. Ad oggi ignoriamo per quanti anni si protrasse la presenza vichinga in quelle zone.
La Torre di Newport
Una torretta in pietra alta circa otto metri, in quel di Newport, Rhode Island, giunta fino a noi nonostante l’incendio del 1780 d.C., attribuita ora ai Templari ora ai Vichinghi, rivela una forma cilindrica e mostrerebbe una struttura analoga a quella delle chiese scandinave, ma sulla pietra non si può impiegare il metodo del C14 per effettuare una datazione precisa. Sebbene quasi certamente sia più recente (nata come deposito nel periodo coloniale e convertita in seguito a mulino a vento come attestano gli scavi di William Godfrey Jr., che subito dopo il secondo conflitto mondiale scavò intorno alle sue fondamenta rinvenendovi oggetti chiaramente risalenti al 1650 d.C. circa) è stata retrodatata al XIV secolo o addirittura prima!

La Rupe di Dighton
A destare interesse per anni fu la cosiddetta Rupe di Dighton, Massachusetts. I primi a osservare le curiose incisioni su questa rupe furono senz’altro i coloni: Cotton Mather, tristemente famoso per avere fomentato la follia nel periodo delle streghe di Salem, pubblicò sul finire del XVII secolo i disegni degli strani segni incisi sulla rupe. La Rupe di Dighton presenta un’infinita varietà di simboli che possono essere interpretati come la “scrittura” degli Indiani della Virginia (così sosteneva il presidente George Washington) ma anche come rune e numeri romani, tanti aggiunti alla fine del milleseicento. L’archeologia ufficiale ha liquidato la questione attribuendo le incisioni originali ai locali Indiani Algonchini.
La Pietra Runica di Kensington
Nel 1949 il prestigioso Smithsonian Institute di Washington presentò un reperto archeologico di straordinaria rilevanza: consisteva in un blocco di pietra 76x41x15 cm. del peso di 90 kg inciso di fronte e di lato, proveniente dal Minnesota. Si pensava potesse dimostrare lo stanziamento di esploratori nordeuropei nella parte centrale dell’America del Nord fin dal XIV secolo. Il reperto fu oggetto di aspre dispute: la sua autenticità veniva ora confermata ora smentita, finché fu acquistata da un certo Hjalmar Holand che diventò ricco grazie a una serie di libri nei quali si narrava di Vichinghi stabilitisi tra il Mississippi e il Missouri. Oggi la pietra è esposta all’interno del Rune Stone Museum di Alexandria nei pressi di Kensington e Alexandria è stata ribattezzata «il luogo di nascita dell’America». Tutto iniziò nel 1898, quando, guarda caso un contadino svedese che viveva in Minnesota, Olof Omhan scalzando un albero, trovò incastrata tra le radici una grossa pietra con incise quelle che sembravano le lettere dell’alfabeto runico e che raccontavano di una spedizione di 8 svedesi e 22 norvegesi arrivati nell’attuale Minnesota nell’anno 1362 d.C. Le polemiche intorno a questa pietra non si sono mai placate e molti esperti ritennero che l’iscrizione non fosse in una lingua del XIV secolo ma successiva, finché finalmente arrivò la confessione shock di un certo Walter Cran il quale dichiarò, in punto di morte  nel 1973, che suo padre e Olof Omhan incisero le rune sulla grossa pietra creando un volgare falso.

Il penny del Maine e le morbide cordicelle di pelo filato
Era il 1957, quando un gruppo di archeologi dilettanti rinvenne in un sito nativo americano degli anni 1180 d.C.-1235 d.C., Goddard’s Farm a Naskeag Point, Brooklin (Maine) nella Penobscot Bay, insieme a una serie di manufatti indiani, una moneta d’argento che in principio venne scambiata per un penny inglese. Si ritiene che le genti lì stanziate fossero gli antenati dei Penobscot. La moneta invece, che resta tuttora uno dei rari oggetti di provenienza europea pre-colombiani trovati negli Stati Uniti, non è affatto un penny inglese: nel 1978 ci si accorse che trattasi di un penny norvegese coniato dal Re Olav Kierre III tra il 1065 d.C e il 1080 d.C. più di mezzo secolo dopo le leggendarie imprese vichinghe di Leif Eiriksson, di suo fratello Thorvald e di Thorfinn Karlsefni. Naturalmente si contemplò l’eventualità che la moneta fosse stata depositata con premeditata fraudolenza nello stanziamento dei Nativi del Maine con l’intento di comprovare non solo la presenza sul suolo americano dei Vichinghi alla fine dell’anno Mille ma anche che nel frattempo si erano spinti molto più a sud di quanto si fosse immaginato fino a quel ritrovamento. Si giunse alla conclusione che non si trattasse di una truffa: la moneta, forata, evidentemente non veniva usata come mezzo di scambio, ma era un monile, è stata ritrovata nello stesso sito una selce eschimese, e quindi si è dedotto che sia arrivata ai Nativi del Maine dagli Eschimesi e non adoperata per pagare. In Canada, sull’estremità settentrionale dell’isola di Baffin, vennero ritrovate delle funicelle  di pelo di lepre artica non semplicemente arrotolate, ma filate che l’archeologa Patricia Sutherland studia fin dal 1999. Il filato risultò uguale a quelli prodotti dalle donne vichinghe in Groenlandia. L’archeologa da allora ha passato al setaccio tutto il materiale conservato al Museo della Civiltà Canadese, tra cui pezzi di legno che non avrebbero dovuto esserci, visto che la zona è una tundra completamente priva di alberi. E’ convinta di avere individuato i fusi per filare e numerose asticelle che i Vichinghi impiegavano per i loro scopi commerciali, oltre a un serie di legname bucato con fori quadrati, il che proverebbe i contatti tra i Dorset, abitanti della costa artica per 2000 anni e poi estintisi improvvisamente, e i Vichinghi di origine norvegese. I lavori per ampliare queste scoperte sono tuttora in corso.

La mutazione genica
La pelle chiara dei Mandan così come il colore dei loro capelli e dei loro occhi avrebbe una motivazione che non va ricercata nella loro discendenza da un ceppo europeo bensì, purtroppo, in una mutazione di natura genetica: è l’ipotesi del maestro elementare Giuseppe Pirazzo e  dell’ingegner Francesco Vitale i quali offrono un’interessante e possibile spiegazione alternativa sia ai progenitori Gallesi sia ai progenitori Vichinghi con la quale ritengono di avere risolto definitivamente il Mistero degli indiani Mandan.
Secondo loro le caratteristiche somatiche tipicamente nordeuropee  non deriverebbero dall’unione dei Nativi con antichi esploratori, ma, molto meno romanticamente dall’esposizione a radiazioni. Pirazzo e Vitale fanno notare che gli Aracani boliviani sono bianchi: questi Indios vivono a Tiahuanaco a pochi chilometri da un grande giacimento di uranio. I due italiani dopo un’attenta disamina delle mappe dei giacimenti minerari statunitensi e canadesi sottolineano che il fiume Yellowstone bagna una zona densa di uranio. Questo fiume che scorre nel Montana (confinante con il Nord Dakota) confluisce a nord nel Missouri. Le acque dei fiumi Yellowstone e Missouri avrebbero potuto trasportare piccole quantità di uranio responsabili di mutazioni genetiche che avrebbero gli indiani Mandan biondi con gli occhi chiari e con un sistema immunitario deficitario (il che spiegherebbe anche come mai furono quasi tutti uccisi dal vaiolo). Si sa che l’esposizione alle radiazioni può causare da significative modificazioni nella pigmentazione della cute e dei capelli alla diminuzione della durata della vita comportando malattie gravi, abbassamento delle difese immunitarie con problemi nel funzionamento degli organi. Si stima che il popolo Mandan sia stato esposto in maniera prolungata a irradiazioni di bassa intensità e che questo abbia determinato le mutazioni geniche a carico della pelle, degli occhi e dei capelli e la loro salute cagionevole. La memoria dei Mandan è stata conservata soprattutto per merito del pittore John Catlin che ci ha restituito nei propri schizzi e nelle proprie opere personaggi e paesaggi che avremmo presto perduto per sempre, come il capo Mato- Topé (Quattro Orsi) l’uomo più famoso di questo clan. Riguardo i rapporti con l’uomo bianco, si ricorda appunto il drammatico discorso di Quattro Orsi, vissuto nella prima metà dell’Ottocento lungo il fiume Missouri nel territorio che oggi corrisponde allo stato del Nord Dakota. Mato-Topé si guadagnò il nome di Quattro Orsi sul campo dopo avere combattuto valorosamente contro gli Assiniboine: dimostrò una tale forza e un tale coraggio che ricordò ai propri uomini la forza e il coraggio di quattro orsi messi insieme, uccidendo più di 14 nemici. Nel giorno della propria morte a causa del vaiolo che lo stroncò il 30 luglio 1837 egli dichiarò: “Amici miei, questo è ciò che ho da dire: sin da quando posso ricordare, siamo stati amici dei bianchi e abbiamo vissuto insieme a loro fin da quando ero ragazzo e, per quanto posso sapere, non ho mai fatto un torto a un uomo bianco ma, al contrario, li ho sempre protetti dagli attacchi di altri e loro questo non possono negarlo. Non ho mai lasciato un uomo bianco affamato, perché gli diedi sempre da mangiare e da bere, oltre a una pelle di bisonte per dormire, se ne aveva bisogno. Sono sempre stato pronto a morire per loro, e non possono negarlo. Ho fatto tutto quello che un uomo può fare per loro, e come mi hanno ripagato? Con l’ingratitudine! Non ho mai disprezzato gli uomini bianchi, ma oggi io li maledico perché mi hanno ingannato e, mentre io li trattavo sempre da fratelli, si sono rivelati invece come i peggiori nemici. Ho preso parte a molte battaglie e spesso sono stato ferito, e delle ferite subite dai nemici mi vanto, ma oggi sono ferito, e da chi? Da quegli stessi  bianchi che ho sempre considerato e trattato come fratelli. Io non temo la morte, amici miei. Voi lo sapete, ma temo di morire con questa faccia marcia, tanto che i lupi stessi inorridiranno nel vedermi e fuggiranno dicendo: «quello è Quattro Orsi, l’amico dei bianchi». Ascoltatemi bene, perché sarà l’ultima volta che mi sentirete parlare. Pensate che le vostre mogli, i bambini, i fratelli e le sorelle, gli amici e tutti i nostri cari sono morti o stanno morendo con le loro facce marce a causa di quei bianchi, pensate a tutto ciò, amici miei, e insorgete e tutti insieme non lasciatene uno solo vivo.”
Per quanto in molti abbiano trovato punti di contatto tra i Mandan e i Gallesi, altri hanno sempre negato questo fatto. Di certo gli indiani Mandan avevano i capelli chiari e gli occhi azzurri o grigi come affermò la maggior parte di coloro che all’epoca li incontrarono. Molto accattivante e suggestiva resta la presenza di una manciata di vocaboli, con lo stesso significato e pronuncia simile, nelle lingue gallese e mandan, però oggi i linguisti collocano con tranquillità e senza possibilità di appello la lingua mandan nella famiglia linguistica siouan, inoltre per l’archeologia ufficiale gli antenati dei Mandan erano un gruppo di Sioux e si sottolinea che i Mandan  avevano adottato uno stile di vita per così dire “gallese” almeno trecento anni prima del presunto sbarco di Madoc; infine l’artista svizzero Rudolph Kurz asserisce che le barche dei Mandan fossero in realtà come le barche di tutti gli altri Indiani delle Praterie.
L’origine sioux e l’appartenenza alla famiglia linguistica siouan di per sé non escludono l’unione con gente venuta dal mare con miscellanea di caratteri somatici e inevitabile contaminazione linguistica, tuttavia appare poco credibile che i Mandan discendessero da Madoc: dalle approfondite ricerche del chimico e letterato Thomas Stephens del 1858 emerge che Madoc e Owen Gwynned non siano mai  esistiti, i loro nomi infatti non appaiono nelle cronache medievali gallesi (le uniche tracce di un  navigatore di nome Madoc vissuto realmente sono state trovate dal professor Gwyn Williams, dell’Università di Cardiff, ma costui non attraversò l’Atlantico).
Se i Gallesi non sbarcarono nel Nuovo Mondo prima di Cristoforo Colombo, di certo lo fecero i Vichinghi, ma è altrettanto improbabile un legame tra Vichinghi  e  Mandan: innanzitutto non risulta che i Vichinghi si siano spinti in queste regioni delle Americhe e poi i Mandan ignoravano la ruota, al pari degli altri Nativi,  fatto strano se davvero avessero avuto rapporti con gli Europei. Probabilmente gli indiani Mandan non avevano avuto contatti con i Gallesi, né con i Vichinghi e la ragione del loro incarnato chiaro, dei loro capelli biondi o rossi e dei loro occhi azzurri o grigi dipendeva soltanto dalla lunga e spietata esposizione all’uranio che ha determinato la mutazione genica e che tra le altre cose li ha resi deboli e vulnerabili al  vaiolo.

Fonti bibliografiche:
-Augustin Siegfrid, Storia degli Indiani d’America, Odaya 2009 (Titolo originale: Die Geschichte der Indianer, 1995)
-Bray Kingsley M., Cavallo Pazzo, il grande condottiero delle Little Bighorn,  Le Scie Mondadori, Milano 2008 (Titolo originale: Crazy Horse, 2006)
-Highfield Roger, La ccienza di Harry Potter, come funziona veramente la magia, Oscar Mondadori Editore, Milano 2005 (Titolo originale: The Science of Harry Potter, 2002)
-James Peter e Thorpe  Nick, Il libro degli antichi misteri, uno straordinario viaggio negli enigmi della storia dell’umanità,
Armenia, Milano 2005 (Titolo originale Ancient Mysteries, 1999)
-Jacquin Philippe, Storia degli Indiani d’America, leggenda e realtà di un popolo in lotta per la sua sopravvivenza,  Mondadori, Milano 1977 (Titolo originale: Histoire des indians d’Amerique du Nord, 1976)
-Jones Gwen, I Vichinghi, l’epopea storica di un popolo di autentici «predoni» e audaci esploratori che dalle terre dell’estremo nord si riversò avido di ricchezze e di potenza, sulle coste del resto d’Europa (edizione integrale)
Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1995 (Titolo originale: A History of the Vikings, 1968)
-Moore J. Robert, Indiani d’America, l’arte e i viaggi di Charles Bird King, George Catlin e Karl Bodmer, edizioni White Star
-Reid Howard, il mistero delle mummie, alla ricerca degli immortali, dalle mummie egizie a quelle congelate dei nomadi siberiani, dai cadaveri nelle paludi dell’Europa nord-occidentale alla valle dei morti in Perù,  Newton & Compton Editori-Il Secolo XIX, Roma 2005 (Titolo originale: In Search of the Immortals, 1999)
-Pringle Heather, Vichinghi e Indiani d’America, incontri ravvicinati, un’archeologa canadese cerca di riportare alla luce un capitolo sepolto della storia del Nuovo Mondo, National Geographic Italia, novembre 2012.
-Simboli sacri, i Nativi Americani, Armenia, Milano 1998 (Titolo originale: Sacred Symbols, Native Americans, 1996)
-Zucconi Guglielmo, Gli spiriti non dimenticano, il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux,  Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996

Internet:
- Lingue siouan – Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Lingue_siouan
- Pietra runica di Kensington – Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_runica_di_Kensington
- La Torre di Newport – archeoastronomia
http://shardanapopolidelmare.forumcommunity.net/?t=38064805
- Pagina di stampa – Colonie vichinghe in America
http://www.farwest.it/new/index.php?topic=2269.90
- Maine penny – Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Maine_penny
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sabato 23 agosto 2014

La sacra pipa

La Sacra Pipa (o “Chanunpa Wakan” o “Calumet”) è lo straordinario emblema di pace (e di preghiera) degli Indiani dell’America del nord. Racchiude in sé tutto il loro profondo ‘senso religioso’ ed è intrisa di significati simbolici importanti. La leggenda Lakota-Sioux vuole sia stata donata agli uomini dalla femmina bianca di bisonte con le 7 cerimonie, infatti era la pipa cerimoniale utilizzata per stipulare i trattati di pace, fumata in altri significativi rituali. Essa si compone di due parti:
-il cannello (o “ihupo”, detto anche “sinte” = coda,) che è in legno d’acero (o di frassino) e rappresenta gli UOMINI (e anche il genere maschile). Può essere decorato, in questo caso ci sono i quattro colori: rosso, blu, bianco e giallo
-il fornello (“pahu”) che simboleggia la carne viva ed il sangue coagulato della MADRE TERRA (e rappresenta il genere femminile) è scolpito invece in una pietra particolare, la “inian sha” o catlinite (dal nome di George Catlin, celebre per avere ritratto tra gli altri gli indiani Mandan prima che un’epidemia di vaiolo li sterminasse quasi tutti) di colore rosso mattone (è infatti ferrosa e la si lavora abbastanza facilmente). La catlinite si trova solo nell’attuale stato del Minnesota. (I Cherokee per esempio creavano il fornello lavorando una sorta di creta).
La stessa ‘dualità’ della Chanunpa è sacra, proprio perché è simbolo, come accennato sopra, dell’unione tra i molteplici ‘opposti’ che ci circondano: a iniziare da maschio e femmina, ma anche mondo materiale e mondo spirituale, cielo e terra etc.
Unire il fornello al cannello e pregare fumando la Sacra Pipa significa quindi rappresentare simbolicamente l’unione di tutti gli opposti, mostrando come ogni essere ed ogni cosa presente sulla Terra (e nell’intero Universo) abbia una comune origine, con la consapevolezza che ciò che vediamo sia legato a ciò che non vediamo e viceversa.
Mentre si riempie il fornello con erbe e cortecce bisogna rivolgersi agli Spiriti delle Quattro Direzioni, al Padre Cielo e alla Madre Terra.
Il rituale prevede che chi fuma la Sacra Pipa debba rivolgersi verso est all’alba e verso ovest al tramonto.
Il miscuglio di corteccia, tabacco ed altre erbe riconduce al mondo vegetale e quindi all’ACQUA, elemento vitale (non soltanto per l’uomo ma anche) per le piante; l’accensione della pipa allude invece al FUOCO. Il fumo alzandosi verso il cielo vi porta le preghiere e configura l’atto di unione tra l’uomo e gli dei. Il Calumet è ritenuto al pari di un essere vivente e quando non viene usato (proprio perché le due parti insieme generano la vita) cannello e fornello devono stare rigorosamente separati (porterebbe sfortuna tenerli uniti) e, questo me lo ha insegnato la mia amica Liz in occasione di un suo viaggio in Italia, conservati bene avvolti in un telo di stoffa rossa. E’ buona norma inserire della salvia essiccata nel fornello.

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Occhio alle BUFALE!

Accendi il computer, ti connetti ad Internet e ti si apre un mondo (virtuale) di opportunità: amici in ogni parte del mondo con cui rapportarti, notizie in tempo reale, film, documentari, acquisti on-line e la possibilità di accedere a migliaia (forse milioni) di dati.
Molto spesso però accade di imbattersi in vere e proprie bufale: è l’innocente (?) caso della Leggenda Hopi sugli Uomini Rettile (serpenti e/o lucertole) che con due righe stringate (sempre le stesse) rimbalza da un sito all’altro senza la citazione di alcuna fonte (in cerca di credibilità: presto o tardi a forza di essere riportata, copiata ed incollata una storiella -rischia di o- finisce per essere ritenuta VERA! Anche (e soprattutto) perché qualche volta  s-e-r-v-e  ad avvalorare qualcosa d’altro: in questo caso ad esempio appoggia sia ‘l’ipotesi rettiliana’ sia quella della (presunta) città di Rettiliani al di sotto di Los Angeles! In tutta la Rete però non c’è null’altro se non quelle due (solite) maledette righe…
Ne prendi atto, finché un pomeriggio ti metti a spulciare (in un lavoro che sembra non avere fine) ogni singolo testo sui Nativi Americani che campeggia nella tua libreria, facendo particolare attenzione ai libri sulle Leggende e sui Canti (non necessariamente hopi peraltro) e non trovi NULLA. Scrivi ad un tuo amico Hopi che vive dall’altra parte del pianeta e conosce molto bene le tradizioni ed il folklore del proprio Popolo che contribuisce a diffondere in giro per il mondo il quale ti risponde, quando gli chiedi informazioni su una Leggenda hopi che parli di Uomini Rettile, di non averne mai sentito parlare!

Morale: bisogna s-e-m-p-r-e prendere con le pinze le notizie che molto (forse troppo) facilmente reperiamo in Internet ricordando che chiunque può, in buona o cattiva fede, inserirle; lo può fare anche il più ignorante, disinformato o malintenzionato di noi: c’è chi inventa balle e le pubblica per puro divertimento, chi prende granchi colossali e li posta, chi copia e ricopia da altri siti e blog senza porsi domande e riflettere su che cosa stia scrivendo davvero, etc. Il punto è che la notizia (il dato) in rete non passa attraverso i filtri che deve invece superare un libro stampato (ne va del buon nome non solo dell’autore ma soprattutto dell’editore); l’anonimato garantito a chi pubblica nel Web invece permette di scrivere qualsiasi nefandezza senza perdere la faccia, permette di farsi beffa di chi legge o depistre, quindi d’ora in avanti alla domanda: “Uomini Rettile nelle Leggende degli Hopi?” possiamo rispondere tranquillamente: “No grazie!”, ma soprattutto ricordiamoci di verificare le fonti e la serietà del sito da cui traiamo il materiale.

P.s: in questo caso le fonti sono tutti i testi sulla Cultura dei Nativi Americani (in negativo) che NON riportano la Leggenda hopi sugli Uomini Rettile e tutti i siti e/o blog che invece (senza riportare alcuna fonte) continuano a riportare questa (falsa) leggenda. Ringrazio di cuore il mio amico Bo che gentilmente mi ha offerto la propria disponibilità per dissipare i miei dubbi.

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domenica 17 agosto 2014

Quell’occasione mancata (e non fu neppure l’unica)

Il primo osso di dinosauro scoperto fu anche il primo ad essere (successivamente) smarrito: nel 1787 in New Jersey (USA) fu del tutto casualmente rinvenuto un grosso femore (probabilmente di adrosauro = grande dinosauro con becco d’anatra).
Al tempo nessuno aveva ancora sentito parlare di dinosauri: basti pensare che il termine fu coniato nel 1842. Va detto che i fossili di dinosauro sono conosciuti dall’uomo da tempo immemore e se in Europa li si considerava ossa di giganti (presumibilmente morti a causa del biblico diluvio) in Cina li si pensava appartenere ai draghi.
L’osso giunse nelle mani di un noto anatomista americano, Caspar Wistar che lo studiò e lo descrisse al convegno dell’American Philosophical Society of Philadelphia, senza purtroppo rendersi conto di quanto importante fosse quel pezzo.
Il dottor Wistar avrebbe potuto passare alla storia come lo scopritore dei dinosauri (e con anni d’anticipo rispetto alla loro ufficiale scoperta), invece ciò non accadde (ed egli dovette accontentarsi, si fa per dire, di passare alla storia comunque, ma in tono decisamente minore, solo grazie al botanico Thomas Nuttall che gli dedicò la splendida pianta di glicine che porta il suo nome, Wistaria sinensis).
Ad ogni modo l’osso venne dapprima dimenticato all’interno di un armadio e poi perduto (per sempre).
Le ossa di questi bestioni erano già state notate presso alcune tribù di Nativi Americani, se non altro perché non era difficile inciamparvi in certe zone: in epoca relativamente recente (1892) il paleontologo Edward Drinker Cope dopo aver trovato resti di questo tipo in un deposito del Cretacico in South Dakota, scrisse che presso i Sioux si raccontava che queste ossa fossero appartenute a creature, in possesso di poteri malefici, che abitavano sottoterra, esseri mostruosi fulminati dal Grande Spirito che avrebbe ucciso anche tutti coloro che si fossero avvicinati ad esse.
Caspar Wistar non fu l’unico a perdere l’opportunità di essere lo scopritore di questi antichissimi vertebrati, gli Americani ebbero più di un’occasione per acciuffare questo primato, eppure le bruciarono tutte: la famosa spedizione di Lewis e Clark (1806) che attraversò anche il Montana (dove successivamente i cacciatori di fossili avrebbero sguazzato tra le ossa di dinosauro, ma soprattutto dove Barnum Brown scoprì i primi scheletri di Tyrannosaurus rex, il più imponente carnivoro mai vissuto sul nostro pianeta) ne mancò una ed orme di fossili ed ossa rinvenute nel New England oltre ad alcuni altri importanti reperti ne rappresentano altrettante.
Fonti:
- Brisolo Bill, Breve storia di (quasi) tutto – Capire le cose non è mai stato così facile, Super Pocket 2012 (Titolo originale: A Short History of Near Everything, 2003)
- Buffetaut Eric, I dinosauri, TEN 1994 (Titolo originale: Les dinosaures, 1994)
- Wilford John N., L’Enigma dei Dinosauri, Mondadori-DeAgostini 1994 (Titolo originale: The Riddle of the Dinosaur, 1985)
Internet:
- http://it.wikipedia.org/wiki/Dinosauria

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La visione (…della disfatta del generale Custer!)

Si racconta che quando il generale George Custer e il 7° Cavalleria erano in partenza alla volta del Montana contro i guerrieri Sioux, molti di coloro che andarono a salutarli ebbero (allucinazione collettiva?) la sensazione di vedere la maggior parte dei cavalieri prima come sospesi a mezz’aria tra terra e cielo e poi addirittura svanire nel nulla. Dopo un mese Custer e la maggior parte dei suoi uomini furono uccisi dagli Indiani nella nota battaglia di Little Bighorn (25 giugno 1876) che vide la vittoria schiacciante di Crazy Horse (Cavallo Pazzo) e di Sitting Bull (Toro Seduto). Si parlò di una sorta di visione premonitrice della catastrofica fine di quegli uomini e del loro generale!

Fonte:
-Beasant Pam, Misteri inspiegabili, AMZ editrice S.p.A., Milano 1989

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sabato 9 agosto 2014

Moqui Stones

Le Moqui Stones sono pietre particolari formatesi tra i 130 e i 150 milioni di anni di anni fa, probabilmente in seguito all’impatto di un meterotite, alla base del Navajo Sandstone dove sono state trovate. La loro forma è grosso modo sferica, il loro colore bruno/nero rivela che la porzione esterna è di natura ferrosa, mentre all’interno sono costituite da arenaria rossa finissima. Sono state definite “Pietre dello Sciamano” in virtù delle capacità che vengono loro attribuite: ritenute potenti alleati nel cammino di crescita personale presso i Nativi Americani che le considerano anche importanti strumenti di guarigione. Per gli Indiani sono esseri viventi a tutti gli effetti provenienti da un’altra dimensione: le rispettano descrivendole come un prezioso dono per gli uomini dalla Madre Terra. Ne esistono di due distinti generi (vien da sé che si tratta soltanto di una diversificazione pratica, le pietre naturalmente non hanno alcun sesso, semplicemente in base alla diversa morfologia si può assegnare in questo modo a ciascuna di esse un’energia di tipo Yin e un’energia di tipo Yang) il maschio – di forma leggermente irregolare, un po’ schiacciata – e la femmina – decisamente più sferica -. Vanno adoperate in coppia. Si dice che ci si debba occupare di loro amorevolmente e non trascurarle mai: è necessario pulirle con delicatezza utilizzando uno spazzolino (senza mai bagnarle considerando sia la loro natura ferrosa sia che  l’acqua potrebbe penetrare nell’interno sabbioso della pietra); se poste la notte sotto il cuscino permetterebbero di sognare situazioni piacevoli. La femmina va tenuta nella mano sinistra, il maschio nella destra. Possiedono, si dice, un’energia speciale che proverrebbe direttamente dalla terra: infondono benessere fisico e morale, assorbono le cosiddette negatività e proteggono ripristinando le energie del corpo e dell’aura rinnovando e purificando i campi energetici. La pietra maschile stimola, pare, la chiaroveggenza, la percezione di eventi lontani nel tempo e nello spazio e addirittura delle vite precedenti. Una leggenda Hopi dice che gli antenati defunti giocavano con le Moqui Stones nell’unica notte dell’anno in cui era concesso loro di ritornare sulla terra per mostrarsi ai vivi; quando alle prime luci dell’alba i morti dovevano abbandonare i loro cari per risalire in cielo lasciavano le pietre in dono come simbolo del loro stato di pace e serenità raggiunte.

Fonti:
-http://mystero.forumcommunity.net/?t=2114038
-notizie fornite dal venditore dove ho acquistato le mie Moqui Stones
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Il culto del cane presso i Nativi Americani

Anni or sono un archeologo americano rinvenne al di sotto del basamento di un edificio a Manhattan la tomba di un cane. La sepoltura risultò molto antica (databile a circa 3500 anni fa). Si trattava di una tumulazione di tutto rispetto: abilmente ornata con conchiglie e pietre di vario colore. Di quell’area si sa che fu abitata innanzitutto dagli indiani Delaware che le attribuirono il nome di ‘Mannahatta’ (=l’isola) e che in epoca  relativamente recente (XVI secolo)  vi si insediarono gli Algonchini; del resto i Delaware che chiamavano loro stessi ‘Lenni Lenape’ ossia ‘veri uomini’ rappresentavano un'ampia confederazione proprio di lingua algonchina che viveva dove c’è l’attuale Long Island. A proposito degli onori attribuiti (giustamente) dalle antiche popolazioni native americane ai cani, come testimonia questo importante ritrovamento archeologico, bisogna sottolineare che una tradizione analoga è tuttora perpetrata da una comunità dell’Oklahoma dove vengono celebrati funerali in pompa magna per i cani, in quanto preziosi guardiani della casa. Presso gli Indiani d’America (tutti) vige un profondo rispetto per tutte le creature viventi, quindi non stupisce la venerazione di alcune tribù per il cane, ma va detto che nei periodi di carestia in alcune zone dell’America del Nord i cani, soprattutto i cuccioli, venivano sacrificati a scopo alimentare.

Fonti:
-Settimana Enigmistica n° 62284 del 17/12/2011 “Spigolature”
-http://www.zavagli.it/TRIBUD.htm

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